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il contenuto del blog è rivolto a fumatori maggiorenni e consapevoli, che vogliono condividere la cultura legata al mondo del sigaro, non si vuole in alcun modo promuovere l'uso di tabacco. Si ricorda che in ogni sua forma, IL FUMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE

14 maggio 2018

Concorso letterario apuano: “L’ultimo” di Stefania Maggio

Come anticipato pubblichiamo i restanti racconti che hanno partecipato al concorso letterario apuano. I racconti che non hanno raggiunto la menzione, sono pubblicati in ordine casuale e non secondo la classifica di valutazione.

Stefania Maggio
L'ultimo

La squadra era appena rientrata da una settimana di perlustrazioni e “disinfestazione” particolarmente fortunata. Il massiccio corpo del sergente maggiore emanava soddisfazione ad ogni passo e anche se sul viso solcato da rughe di pietra non comparivano emozioni, i suoi uomini respiravano a pieni polmoni il sentimento cameratesco dell’essere tornati vivi, tutti e undici, dalla missione.
I terrestri avevano vinto la guerra, ma prima di abbandonare il pianeta gli invasori lo avevano disseminato di mine antiuomo viventi. Da quasi cinque anni ciò che restava delle milizie terrestri era impegnato in missioni di disinfestazione. Il lavoro era semplice: recarsi nella zona assegnata, perimetrarla con un campo di forza e cacciare uno ad uno gli insetti alieni che vivevano al suo interno.
La compagnia Nord32 era stata dislocata in Italia e la sua squadra nel Sannio gli avevano detto, ma per il sergente non faceva alcuna differenza il posto. Dopo tre anni di quell’inferno ogni luogo si somigliava, ogni missione era identica, cambiava solo il numero degli uomini al suo comando. Della squadra originale solo lui e Titus erano sopravvissuti. Gli altri erano caduti uno alla volta ed erano stati rimpiazzati da nuove reclute, ancora e ancora.
Il sergente si tolse la pesante corazza che proteggeva il busto e sganciò i
gambali rinforzati che arrivavano fino al ginocchio. Poi fu la volta delle protezioni in newkevlar di gambe e braccia e finalmente poté rilassarsi.
Dal suo armadietto estrasse una scatola di legno, lucida, brillante e levigata. Sembrava un blocco unico ed in effetti quasi lo era. Scavata in un unico pezzo di radica, il coperchio vi aderiva con precisione millimetrica e sigillava il contenuto in modo perfetto, grazie alla guarnizione in ultrapolimeri. Quasi non si ricordava più da quanto tempo non l’apriva. L'ultima missione senza perdite né mutilati risaliva a tre mesi prima. Sganciò il coperchio e ammirò il suo tesoro che si andava assottigliando sempre più. Prima o poi ne sarebbe rimasto uno solo, ricordo di un mondo scomparso che forse non sarebbe mai più tornato.
Prese tra le dita un lungo cilindro color nocciola. Lo portò al naso aspirandone gli aromi di fieno e miele e carezzandone la superficie leggermente oleosa e liscia come la pelle di una donna. Sfiorò con la lingua la superficie che sapeva appena di sale e forse pepe, sì leggermente piccante, e si preparò a gustare la promettente fumata. Aveva dato ordine di non essere disturbato per le prossime due ore. A meno che non si trattasse di questioni di vita o di morte, i suoi uomini sapevano che James Alejandro Correras, Jaco, voleva restare solo.

Due anni prima, AD 2168, in Nicaragua, quella scatola gli era stata regalata da un vecchio che era riuscito a salvare un carico di sigari prima che l'azienda e i campi venissero distrutti dalla guerra. Era il suo ringraziamento per aver disinfestato la zona dove un tempo le piantagioni di tabacco erano la principale attività e dove grazie al lavoro della compagnia Nord32 era possibile ricominciare a sperare. Il vecchio sapeva che non sarebbe campato abbastanza per vedere i nuovi raccolti diventare sigari, ma aveva dei figli e dei nipoti ai quali aveva trasmesso il suo sapere e il suo amore.
Serviva cibo innanzitutto e molti di quei campi disinfestati sarebbero stati coltivati diversamente, ma non tutti. Almeno una piccola zona spettava alla sua famiglia e loro, i Padròn avevano il tabacco nel sangue.
Jaco ricordava ancora lo sguardo del vecchio che gli porgeva la scatola, un modello di lusso, alimentato da una cella a idrogeno che manteneva perfetta l'umidità e la temperatura al suo interno. Il suo prezioso contenuto sarebbe rimasto intatto a lungo, pressoché inalterato, forse sarebbe durato persino più a lungo di lui. Nello sguardo del vecchio brillava la luce della speranza. Jaco se ne era andato con quel regalo prezioso e la vaga promessa di ritornare una volta che il suo lavoro non fosse stato più necessario, una volta che anche l'ultima cucaracha fosse stata distrutta.
Semisdraiato sulla sua branda, il sergente aspirava con calma il fumo caldo e denso. Lo tratteneva qualche istante nella bocca e poi lo faceva uscire lentamente da una fessura tra le labbra, quasi gli dispiacesse lasciarlo andare. L'aroma di tabacco si spandeva nella stretta stanza che non divideva con nessuno, privilegio del grado. Tra gli arabeschi e i fili grigi delle volute che si spandevano intorno, ricordava i nomi dei suoi uomini, di quelli vivi, di quelli morti e di quelli che non si poteva più dire se fossero vivi o morti, i sopravvissuti all'attacco di una blatta.
Quegli orrori alieni avevano continuato ad infestare il pianeta dopo la fuga dei loro padroni ma finalmente sembrava che la situazione stesse migliorando. Le chiamate si facevano più rade e disinfestare era diventato più semplice. Il numero dei mostri diminuiva con costanza.
Jaco osservava la cenere argentea, perlata e compatta e per un attimo gli parve quasi di essere felice. Rimase in quello stato di beatitudine per un paio d’ore, riposando, ricordando e allo stesso tempo dimentico del tempo trascorso.
Dopo una settimana la sua squadra era pronta per una nuova disinfestazione. Si spostarono a circa 80 km dalla base, raggiungendo un'area pianeggiante ricca di vegetazione. Erano state segnalate una decina di mine viventi in un raggio di circa 20 Km. La squadra si divise in due gruppi che si mossero ad angolo retto. Alfa era sotto la direzione di Jaco e Omega era affidata a Titus. Spostandosi con le jeep corazzate, capaci di arrampicarsi su terreni con pendenze estreme, gli uomini piantavano ogni cinquecento metri un generatore di campo alimentato da una cella a

combustibile atomico. Il generatore affondava nel terreno per due metri terminando con un espansore che ne assicurava l'immobilità. Una volta acceso, il campo di onde elettromagnetiche prodotto impediva alle mine di oltrepassare la zona coperta.
Delimitata l'area assegnata cominciava la caccia. Gli uomini erano tutti armati di un disgregatore laser. Non era possibile usare proiettili esplosivi con le blatte. Un proiettile standard avrebbe innescato l’esplosione e chiunque nel raggio di cento metri sarebbe saltato con loro. Quegli schifosi insetti del peso di oltre trenta chili erano ripieni di una gelatina più potente di qualunque esplosivo chimico gli uomini avessero mai prodotto.
Le squadre si divisero ancora, formando tre gruppi di tre uomini ed una pattuglia di due. Avanzavano dalla periferia dell'area verso il centro e a turno ciascuno di loro faceva da esca. Gli uomini avanzavano a cuneo, quello in testa era l'esca. Si muovevano tra alte piante dalle grandi foglie di un verde intenso che nascondevano alla vista il terreno rendendo quella missione dannatamente rischiosa. Lo spettacolo di quella piantagione inselvatichita era magnifico. Jaco e Titus, da sud, si muovevano in un silenzio surreale tra sfumature di verde e piccoli fiori lilla e gialli. Dopo un'ora di camminata il primo gruppo vide la sua preda. Masticava lentamente la carogna di una capra selvatica, staccando brandelli di carne con le pinze mandibolari. Le sue antenne percepirono l'odore dell'esca umana e la blatta si rizzò sulle quattro zampe posteriori. Era stata creata per cacciare gli umani. Fulminea individuò il soldato immobile a circa trenta metri di distanza, in piena vista, e corse ad avventarsi contro l’uomo. Gli uomini aspettarono fino a che la bestia fu a soli cinque metri. La cucaracha, spinta da un puro istinto omicida, spiccò un balzo e in quell’istante il fascio di tre disgregatori centrò l'insetto riducendolo a polvere impalpabile.
La caccia proseguì per una settimana e all'alba dell'ottavo giorno l'area era stata completamente ripulita. Nessun incidente. Due disinfestazioni e nessun incidente. Un'euforia di invincibilità serpeggiava nel gruppo e rientrando alla base gli uomini si scambiavano battute e commenti su chi era stato l'esca migliore. Jaco lasciava che ridessero e scherzassero. Troppe volte erano tornati con i sacchi neri che avvolgevano ciò che restava di qualche compagno.
L'ultima jeep trasportava materiale, viveri e munizioni. Sotto i teloni, tra le casse di generatori di campo, una piccola sfera chitinosa giaceva nascosta sul fondo. Era un esemplare giovane, probabilmente rimasto separato dal gruppo familiare quando le squadre avevano delimitato la zona di disinfestazione. Al rientro alla base, la piccola sfera rotolò giù non vista e zampettando si diresse verso gli alloggi dei militari.
Jaco si concesse una lunga doccia, dopo una settimana quell'acqua bollente che gli scorreva addosso era preferibile persino alle carezze di una donna. Avvolto solo da un asciugamano rientrò nel suo alloggio e si buttò sulla branda perfettamente in ordine, che ogni marine impara a fare i primi giorni

di addestramento. Guardò il suo tesoro e decise che poteva permettersi uno strappo alla regola e fumare di nuovo, dopo appena una settimana.
Sollevò la scatola e fu l'ultima cosa di cui ebbe coscienza. L'esplosione investì il sergente maggiore come un fiume di lava. Le gambe si spappolarono sotto l'onda d'urto e il resto del corpo in fiamme fu scaraventato contro le paratie metalliche che volarono via insieme a lui. Non provava dolore, solo non poteva muoversi e non riusciva a vedere. Tutto era silenzio e quiete. Gli uomini accorsero e rimasero impietriti di fronte ai resti del loro sergente. E l'orrore crebbe quando si resero conto che quell’ammasso di carne bruciata era ancora vivo. Fu Titus a muoversi. Prese il corpo dell'amico tra le braccia e lo trasportò alla sala medica. Il medico pensava che fosse impazzito a chiedere di curare un cadavere ma Jaco era ancora lì, non era ancora morto. Mosse le labbra avvizzite in un sussurro. “L'ultimo”, disse all’orecchio di Titus.
Il biondo lasciò Jaco nel tubo medico sapendo che non c'era tecnologia che avrebbe potuto salvarlo. Si diresse disperatamente verso i resti dell’alloggio sperando, pregando... La scatola annerita giaceva vicino al luogo dove pochi istanti prima aveva raccolto l'amico. Sollevò il coperchio irrimediabilmente distrutto, il contenuto incenerito. Niente, nemmeno più uno. Poi si accorse che la scatola conteneva un doppio fondo. Spostò la lamina e sotto, incredibilmente, un sigaro perfetto, nocciola, con la sua doppia anilla rossa e marrone e il corpo di una donna in miniatura finemente disegnato. Corse alla sala medica, staccò coi denti la base del piede e accese il sigaro come aveva visto fare all'amico. Tossendo tirò diverse boccate e quando fu certo della combustione lo accostò alla bocca del sergente.
Jaco non poté ringraziare, aspirò una profonda boccata di quell'ultimo sigaro che gli riempì il palato di miele e fieno, di pepe e sale, di nocciole e di corse sui prati, di sole e di mare al tramonto. Nessun dolore ormai, nessuna preoccupazione sfiorava la mente dell’uomo. Non c’era più la guerra, non c’erano più insetti a tormentare le sue notti.
“L'ultimo”, pensò, “meraviglioso...”
©2018 Stefania Maggio

1 commento:

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