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il contenuto del blog è rivolto a fumatori maggiorenni e consapevoli, che vogliono condividere la cultura legata al mondo del sigaro, non si vuole in alcun modo promuovere l'uso di tabacco. Si ricorda che in ogni sua forma, IL FUMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE

01 febbraio 2017

Tipicità italiane: disciplinare il sigaro di Kentucky, pro e contro.

A seguito del mio post sulla corrente situazione della gamma Toscano, con alcune considerazioni riguardanti la produzione MST, in relazione alla costanza produttiva ed al confronto con alcuni competitor, che si sono affacciati sul mercato in tempi relativamente recenti, l'ottimo Maurizio Capuano (della redazione di Gusto Tabacco, e admin del forum La Compagnia del Tabacco) mi ha risposto "a mezzo stampa" su GT (vedi post), con ulteriori approfondimenti, certamente condivisibili ed interessanti.
Tra le tante, condivisibili, considerazioni, una in particolare è stata ulteriormente dibattuta, sui social, sui forum e anche in conversazioni private tra me e Maurizio: l'assenza di un disciplinare di produzione, e l'effetto che questo avrebbe nel preservare la tipicità del sigaro italiano.
Siccome gli spunti di riflessione sono tanti, ho tentato di riassumerli in maniera organica, e fruibile dai nostri lettori in questo articolo. Ovviamente non c'è alcuna proposta in tal senso, da parte dei produttori, in questo momento, quindi il post si limita a mettere sul tavolo, dal punto di vista puramente teorico, una serie di pro e contro che potrebbero derivare da una regolamentazione del processo produttivo, anche sulla base di altre realtà, esterne al mondo del tabacco, dove esistono
disciplinari e indicazioni di tipicità.
In primis c'è da dire che, in campo agroalimentare, ed enogastronomico, le eccellenze esistono sia nei contesti in cui vige un disciplinare di produzione, sia dove non vige alcuna regola condivisa. Ovviamente non ci riferiamo ai disciplinari interni, che più o meno ogni azienda che si rispetti ha, per la propria organizzazione produttiva, ne alle regole normative in vigore, che rappresentano dei "paletti" abbastanza larghi per certi aspetti, e che lasciano ampio margine di manovra. In questo caso intendiamo un disciplinare simile a quello che esiste per i vini DOC, o per i prodotti DOP-IGP, ovvero una serie di regole, di livelli produttivi e qualitativi minimi che un prodotto deve soddisfare per poter beneficiare della denominazione di origine, e che ogni azienda può inserire in etichetta, se raggiunge determinati standard. Non necessariamente ci si deve rivolgere ai marchi di qualità in auge nell'agroalimentare, è possibile anche creare ad hoc uno schema di certificazione volontaria, condiviso dai produttori, creando un labeling dedicato per il sigaro di Kentucky.
In questo contesto il mondo del sigaro è quasi totalmente privo di disciplinari, esiste ad esempio la denominazione di origine protetta per i cubani, ma si tratta più che altro di una definizione di provenienza della materia prima, che per altro alcune volte viene disattesa, anche se non viene dichiarato per ovvie ragioni. L'assenza di disciplinari produttivi però, non impedisce a marchi come Padròn, Fuente, Fernanzez, etc. (solo per citare i primissimi che mi vengono alla mente) di produrre assolute eccellenze nel panorama del sigaro mondiale. Se ci spostiamo nel campo dei rum, notiamo come non solo non esistano disciplinari rigidi di produzione, ma non esiste nemmeno una regola condivisa sulla nomenclatura e sulla dichiarazione di invecchiamento, cosa che esiste, ad esempio, per il whisky e per altri distillati; tuttavia, abbiamo, anche nel mondo del rum, assolute eccellenze.
Abbiamo quindi evidenziato come non sia strettamente il disciplinare in se a spingere la qualità, ma è sempre necessario un approccio aziendale volto al perseguimento di alti standard.
Inoltre, se è vero che un disciplinare di produzione garantisce degli standard minimi di qualità, non sempre garantisce ad una azienda di raggiungere il massimo del suo potenziale qualitativo. Prendiamo l'esempio emblematico della Francia, che ha fatto dell'indicazione di tipicità sul vino la sua chiave di successo, ben prima di tutti gli altri paesi produttori, e che oggi vede affermarsi una azienda che seleziona etichette di vini di eccellenza, prodotti in zona DOC, ma che rinunciano alla denominazione di origine per poter produrre con più libertà un certo tipo di vino, sfruttando appieno la propria potenzialità e tipicità, e dando spazio anche all'innovazione, al di fuori di rigidi schemi imposti dai disciplinari.
E' anche vero che, pur non essendo una regola universalmente valida, le eccellenze in assenza di disciplinare sono spesso raggiunte da aziende di dimensione medio-piccola, per ovvie ragioni di inserimento in nicchie di mercato lasciate libere dai grossi produttori, quindi, nell'ottica di una grande azienda come MST, uno standard qualitativo minimo,  teso a valorizzare e garantire filiera e processo produttivo, almeno per un paio di prodotti, potrebbe garantire una costanza produttiva nel tempo, ed il mantenimento di una tipicità sul lungo periodo.
E' altresì vero che la creazione, il perseguimento e l'ottenimento di una certificazione di filiera, ha dei costi, alcuni dei quali fissi, che inciderebbero sul prezzo, quindi in primis il consumatore deve essere disposto a pagare un po' di più per il prodotto con marchio di tipicità, e in secundis deve essere chiaro che se il marchio viene usato da più aziende, l'incidenza dei costi, soprattutto di certificazione, sarebbe tanto più incidente, quanto più è piccola la dimensione aziendale, per ovvie ragioni di ripartizione dei costi fissi su una produzione più ridotta.
Ovviamente certificare l'intero portfolio di una azienda sarebbe costoso, controproducente (in quanto limiterebbe l'innovazione), e difficilmente realizzabile. Tuttavia, poter certificare uno o due prodotti (ad esempio un fatto a mano ed un fatto a macchina) consentirebbe alle aziende che lo desiderano, di produrre secondo determinati standard, una categoria merceologica uniforme, sulla quale sarebbe veramente possibile per il consumatore testare le differenze tra i diversi produttori.
Certo è che la denominazione non deve essere un marchio, quindi il nome Toscano non potrebbe diventare la  denominazione di origine, ma ad esempio concetti come  "sigaro italiano a filiera certificata" o "sigaro italiano fatto a mano, a filiera certificata"  potrebbero essere tranquillamente usati, per altro, con indubbi vantaggi sul commercio estero, visto il successo del made in italy, soprattutto quando si parla di gusto, oltreconfine.
Esiste poi la possibilità di disciplinare solamente una parte della filiera, tipicamente nel caso di specie potrebbe essere la produzione del tabacco, ovviamente in italia, per il tabacco di importazione la certificazione e la governance sarebbe alquanto difficile, trattandosi per lo più di provenienze extra europee. Per esempio una produzione con 100% di foglie italiane, marcata come "sigaro ottenuto da tabacco DOP Valtiberino" o "DOP Veneto" o "DOP Beneventano" etc... potrebbe certificare e standardizzare almeno una parte della produzione, anche se, come sappiamo, la qualità finale del sigaro dipende anche in larga parte dai processi successivi alla produzione del tabacco. Qualcosa si sta già muovendo, ad esempio sulla certificazione biologica del tabacco, in particolare una delle aziende italiane sta per mettere sul mercato un prodotto ottenuto da tabacco bio, che si può certificare come tale, secondo il parere del MIPAAF (nota 15151/2015, in accoglimento del regolamento CE 834/2007). Secondo il ministero però, non si può certificare come biologico il prodotto finito, ma solo la produzione del tabacco e la prima lavorazione (fino alla cura). 
Infine, occorrerebbe creare un consorzio paritario tra i produttori, e affidarsi ad un ente di certificazione serio, e sufficientemente grande da essere immune ad ogni possibile foavoritismo verso qualsiasi azienda. Di tanto in tanto si sentono notizie su false certificazioni e controlli concordati, di qualche ente certificatore, compiacente verso alcuni produttori, l'ultimo caso meno di un anno fa, sulla mozzarella di bufala campana.
In definitiva ci sono una serie di aspetti positivi, ma anche qualche punto contrario alla possibilità di certificare la filiera e il processo produttivo di un prodotto come il sigaro, sicuramente il consumatore che volesse acquistare un prodotto certificato dovrebbe pagare qualcosa in più, che non necessariamente sarebbe legato ad un aumento effettivo della qualità percepita.
Ad ogni modo, avere una denominazione condivisa tra le aziende produttrici, potrebbe dare una spinta competitiva a tutto il mercato del sigaro italiano di kentucky.


2 commenti:

  1. Bellissimo e utilissimo contributo, Simone! Hai spiegato tutto per filo e per segno e io non ho nulla da aggiungere. Il fatto che questo argomento sia stato cosí dibattuto e abbia coinvolto gli appassionati é segno di un risveglio della consapevolezza dei fumatori: certo, non di tutti, ma della nicchia informata. Questo non potrá che fare il bene dei sigari toscani (in minuscolo)...

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  2. Interessantissima l'osservazione che non è il disciplinare a spingere la qualità. Veramente un'osservazione necessaria, perchè di solito la gente pensa il contrario. No, a spingere la qualità e l'eccellenza è la tradizione. Gustavo Woltmann

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