L’ultimo Apuano
Erano passati 7338 giorni dalla Grande Catastrofe. Nel 2022, ventisei anni prima dei fatti qui raccontati, il NASDOM (il Sacro Dominio degli Stati del Nord America), aveva radicalmente modificato l’ordine mondiale e stabilito la più alta forma di dittatura mai conosciuta fino a quel momento, costringendo gli abitanti della Terra a neo-anglicizzare il proprio nome e gli oggetti di uso quotidiano e introducendo di fatto un regime di supremazia linguistica globale. Coloro che rifiutavano di sottoporsi alla conversione, venivano condotti immediatamente davanti
alla Corte Suprema e condannati alla pena capitale. Sei anni dopo, il 4 Agosto 2028, per arginare il sovradimensionamento demografico terrestre, il NASDOM varò il piano internazionale per la propagazione del virus patogeno MST2, dando il via alla famigerata “Operazione Bicho” e contaminando con successo la quasi totalità delle scorte tabagiche provenienti dalle coltivazioni italiane e sudamericane. Il risultato fu che, nel giro di poco più di un decennio, dodici miliardi e mezzo di consumatori abituali di tabacco in tutto il pianeta vennero contagiati da quella che inizialmente fu identificata come una forma mutata di influenza aviaria, ma che ben presto si rivelò la peggior piaga mortale a rapida diffusione mai contratta a memoria di essere vivente. Il virus infatti agiva a livello molecolare, modificava la struttura genomica degli infettati e, a decesso avvenuto, donava loro un alito di “non-vita” insieme ad un’ineluttabile volontà di nutrirsi di carne umana. Fu così che ebbe inizio la Grande Catastrofe e quello che, fino ad allora, poteva apparire come un improbabile scenario visto soltanto nei film di fantascienza, divenne realtà, trasformandosi in un incubo terrificante dal quale non era possibile ridestarsi.
New Tuscany, A.D. 2048, oggi. La debole luce dell’alba, attraversando a fatica la spessa coltre di nubi acide, cominciava a sciogliere i residui di brina tenacemente appesi agli arbusti anneriti dai gas. Qui, a ridosso delle montagne circondate da paludi fangose e torme di non-morti, gli italiani sopravvissuti al virus MST2 cercavano di dare un senso a giornate tutte uguali. Chi non arrivava a togliersi volontariamente la vita in preda alla disperazione, aveva ancora una labile possibilità di arruolarsi nella Milizia Apuana, unico organo di difesa e ultimo baluardo contro il gregge degli infetti e le avanguardie NASDOM. Anche se, presso l’avamposto Saint Ismaël, il Quartier Generale della Milizia adibito a rifugio militare, la resistenza era ormai giunta al limite. Le scorte di viveri scarseggiavano, restavano solo pochi artefatti di tabacco non contaminato scampati miracolosamente alla Grande
Catastrofe e una bottiglia di liquore di pessima fattura a rendere meno greve l’attesa prima dell’estremo scontro con l’orda.
“Non mi avrete mai vivo.” pensò tra sé Will Baldwin, capitano pluridecorato della Milizia Apuana, monitorando l’esterno della baracca attraverso i fori di proiettile sparsi sulla parete con l’unico occhio rimastogli, l’altro coperto da una benda scarlatta. Tra i denti un long filler acceso, la cenere biancastra che avanzava a piccoli passi sostituendosi al bruno tabacco della fascia. Il denso fumo si elevava verso il soffitto, soffice e ceruleo, quasi a formare immagini oniriche di tempi lontani, dei giorni in cui il sole era ancora visibile ed era piacevole trascorrere i pomeriggi davanti a un computer in cerca di cazzate con cui ammazzare il tempo. Ma Internet e i social network non erano che un ricordo evanescente: con le telecomunicazioni sotto il totale controllo del regime, da molti anni l’unico diversivo rimasto era far esplodere le teste degli esseri immondi che osavano avventurarsi oltre il perimetro di sicurezza.
JC Jaspar, il sergente maggiore che, di quei mostri, tanti ne aveva visti e altrettanti ne aveva fatti fuori, giaceva in fin di vita in un angolo della baracca, con un bicchiere vuoto nella mano e un mozzicone di sigaro spento in bocca. I morsi di un infetto, sbucato all’improvviso da una camionetta abbandonata, gli avevano amputato mezzo braccio e parte del torace ma, nonostante i crampi provocati dalla febbre alta, non aveva perso la sua sottile vena ironica.
“Sei già morto e non lo sai, Will.” mormorò JC con un filo di voce, quasi avesse udito i pensieri del suo capitano. “Siamo tutti morti. Il maresciallo Steve Badhorses puzza da giorni sotto quella coperta, Dio solo sa dov’è finita la pattuglia di soccorso del tenente Carlton e il dottor Caplan è lì fuori che batte, batte e batte sulla porta di questa catapecchia, mezzo divorato dagli infetti. L’unica cosa che lo rende riconoscibile sono gli occhiali e quel codino di merda che aveva deciso di farsi crescere per piacere alle donne. Che sagoma, il Doc! Chissà poi se, tra quelle creature schifose, ce ne sarà qualcuna che finalmente gliela darà...”
“Riposa e non sforzarti di farmi ridere, amico” replicò il capitano, sbuffando un anello di fumo dalla forma vagamente spettrale. “Finché avrò il mio sigaro in bocca, niente potrà fermarmi. Neanche un esercito di fottuti morti viventi che...”
Un boato poco distante non gli fece terminare la frase.
“Cosa è stato?” balbettò Jaspar terrorizzato.
“Non lo so, soldato. So soltanto che non era niente di buono.” rispose Baldwin, spostando di lato la testa per guardare meglio fuori grazie ad una piccola feritoia sul muro. Nello stesso istante, un secondo boato, stavolta più vicino, coincise con un altro evento inatteso. Colpita da un qualche ordigno esplosivo, una delle finestre del lato ovest, che era stata ricoperta di assi a fungere da barriera di fortuna, saltò in aria lasciando senza difese tutta la parete. Attraverso lo squarcio che si era creato,
un nugolo di braccia putrescenti cominciavano a farsi strada, ostacolate nel passaggio dagli spuntoni di vetro e legno che ne laceravano le carni.
“Santo Douglas, Will! Sono dentro!” esclamò il sergente, in balìa di un panico incontrollabile. “Maremma schifa, JC! Ho un occhio solo, ma lo vedo da me!” sbraitò il capitano mentre imbracciava il suo fedele ARX160. Stringendo con forza il sigaro tra i denti e con i piedi ben piantati, Baldwin aprì il fuoco in direzione della breccia, puntando al mucchio di membra contorte che, a più riprese, penetravano dal buco sulla parete. I proiettili schizzavano ovunque, facendo volare in ogni angolo dell’avamposto brandelli lerci e rossastri di quelle che, in un’altra vita, erano creature battezzate in nome di un Dio inesistente.
“Maledetti bastardi!” gridava il capitano Baldwin in preda all’euforia bellica. Nella furia, il sigaro gli volò dalle labbra e volteggiò alcune volte prima di toccare il suolo, spargendo qua e là frammenti di cenere candida che si mescolarono al sangue e ai proiettili sul pavimento. Fu in quello stesso momento che il fucile d’assalto di Will Baldwin decise di incepparsi. Il capitano allora lo gettò a terra con veemenza e cercò forsennatamente su di sé un'altra arma con cui difendersi da quel mostruoso assalto. Un infetto di grosse dimensioni continuava ad avanzare, infiltrandosi con passo lento, ma deciso all’interno della baracca. JC Jaspar si frugò con tremore sul corpetto lacerato, animato da un disperato anelito di resistenza. Voleva la fotografia sgualcita della sua Stephanie Mae, sepolta due anni prima, per darle ancora un’occhiata piena di rimpianto. Ma la sorte stabilì che, al posto della foto, gli si infilasse tra le dita il calcio della Beretta M9. Dio esisteva, dunque. Con uno scatto, il sergente fece partire un colpo di pistola che centrò in piena fronte l’essere ributtante che stava avendo la meglio sul capitano. All’impatto con il proiettile, brandelli di cervello e putredine diventarono parte integrante di quella che, un tempo, era la sobria tappezzeria della baracca, dandole un macabro tocco di colore. L’infetto crollò al suolo inerte, liberando Baldwin dalla stretta mortale.
“Grazie, JC. Non era destino che oggi dovessi morire...” disse il capitano con un brivido, mentre raccoglieva da terra il suo long filler, ormai spento. Ma JC non poteva più sentirlo. Con quell’eroico gesto aveva esalato il suo ultimo respiro, ancora odorante di Kentucky e sofferenza.
Tutto intorno era silenzio, silenzio e desolazione. Anche il dottor Caplan, stranamente, non batteva più sulla porta del rifugio. Gli infetti sembravano aver desistito dalla loro avanzata, per quanto forse era soltanto una fatua speranza ad alimentare quella sensazione di vuoto. Will osservò muto il suo compagno d’armi. Avrebbe voluto piangere ma, insieme ai proiettili, aveva finito anche le lacrime. Prese la bottiglia dal tavolo e tracannò quella porcheria alcolica senza fermarsi a riprendere fiato. Guardando verso la breccia sulla parete, tirò fuori dalla mimetica un Clipper ammaccato, accese il residuo di sigaro e ne prese una lunga boccata.
“Che merda” biascicò. “Sa di polvere e sangue...” Stava per gettarlo via, quando uno scalpiccio di rami spezzati lo allarmò. Solo allora si ricordò di avere un Bowie appeso alla cintura. Sputò il mozzicone acceso, strinse il coltello nella mano destra afferrando una sedia con l’altra mano, tutti i sensi rivolti al combattimento imminente. Ormai il suo istinto si era talmente affinato da renderlo un animale selvaggio, una macchina da guerra pronta a colpire.
“Will! JC! Steve! Ci siete?” urlò da fuori una voce familiare. La piccola pattuglia di soccorso, guidata dal tenente Andrew Carlton, aveva finalmente raggiunto l’avamposto Saint Ismaël, facendosi largo attraverso il gigantesco gregge di non-morti. Il tenente indossava un paio di Ray-Ban e imbracciava un grosso RPG. Insieme a lui, altri due miliziani dati per dispersi, il caporale Matt Moncler che trasportava dei fucili, seguito dal soldato semplice Martin Bitzkowicz che custodiva un sacchetto di iuta marchiato NASDOM. Da come lo proteggeva, sembrava contenere qualcosa di importante. “Sono qui, figlio di puttana!” gridò Will Baldwin.
“E’ arrivata la cavalleria, capitano!” ribatté il tenente Carlton, senza nascondere l’emozione di essersi riunito al vecchio compagno di battaglia. “E’ da giorni che avanziamo tra le barricate NASDOM e il fango, staccando teste e cercando di sopravvivere in mezzo a questa mer...”
“’Fanculo il NASDOM, tenente! Hai fatto un bel po’ di rumore con quell’RPG. E hai anche sbagliato mira, brutto stronzo! Non credo che questo avamposto fosse il tuo reale bersaglio...” lo incalzò Will. “Incerti del mestiere, capitano. Vallo a raccontare a quel che resta di quei mostri là fuori...” rispose imperturbabile Carlton. Con due dita spostò i Ray-Ban sulla fronte e si guardò intorno per osservare meglio il caos che regnava all’interno della baracca.
“Entrate in fretta e barricate quella breccia, soldati. Il casino avrà senz’altro attirato tutto il gregge da questa parte.” ordinò seccamente Baldwin. Uno strano lampeggio balenò nel suo unico occhio, mentre osservava i tre soldati che si impegnavano a spingere un pesante scaffale contro la parete danneggiata. “Capitano!” esordì d’un tratto il soldato Bitzkowicz richiamando l’attenzione su di sé. Il capitano notò che aveva poggiato sul tavolo il sacchetto di iuta. “Se ci disponiamo in formazione d’attacco, forse potremmo sperare di uscire dal retro del Saint Ismaël, aprirci un varco e...”
“Tu sei pazzo, Martin!” lo interruppe il caporale Moncler, la fronte imperlata di sudore malsano. “Io da qui non mi muovo! Ci sarà pure una radio, in questo avamposto. Chiamiamo subito i rinforzi, così forse...”
“Basta!” urlò il capitano. “La radio ha smesso di funzionare da settimane e, anche se fosse ancora in grado di trasmettere, il sergente Jaspar era l’unico che sapeva usarla e ormai è andato. Lo vedete o siete diventati ciechi? E’ lì per terra e mi ha appena salvato la vita. Anzi, ora che mi ci fate pensare...” Non era la prima volta che il capitano Baldwin doveva compiere quell’atto di misericordia. Serviva ad evitare il risveglio post mortem, ad evitare altro dolore. Sotto lo sguardo affranto dei tre soldati, si
avvicinò al cadavere del sergente, si chinò su di lui e, con un gesto deciso, gli trapassò l’osso frontale del cranio con il Bowie. Dopo avergli infilato tra le labbra pallide quel che restava del suo long filler, prese una coperta e gliela mise addosso, indugiando per qualche istante davanti al compagno morto, come in preghiera.
“JC.” mormorò emozionato. “JC come Jesus Christ. Se lo dovessi incontrare, salutalo da parte mia, amico.”
Rialzatosi, il capitano prese dalla custodia in pelle l’ultimo sigaro che gli era rimasto, lo annusò in tutta la sua lunghezza, ne assaporò con cura entrambe le estremità e lo accese, tirando qualche boccata per fargli prendere la fiamma. Sbuffò due nuvole di fumo azzurrognolo, fece un sospiro e, restando in silenzio, osservò quel che rimaneva dell’eroica Milizia: tre disperati senza futuro. Li guardò a lungo, uno per uno, scrutandoli attentamente, come se il suo sguardo attraversasse le loro divise e cercasse tra gli organi interni un qualche briciolo di umanità. Ciò che era accaduto fino a quel momento aveva di gran lunga superato i limiti dell’incubo e dell’umana sopportazione. Fu proprio allora che sentì come una sorta di ticchettio all’interno della sua testa, seguito da un sibilo assordante che gli fece strizzare l’occhio e serrare più forte i denti. Forse era il segnale che stava aspettando da tempo, il segnale che la sua coscienza, ridotta a brandelli, aveva deciso di migrare su un pianeta lontano in cerca di aria pulita e di solitudine. Forse era l’inizio della fine.
“Soldati!” disse d’un tratto con voce decisa, senza interrompere il contatto visivo. “Qui non c’è più niente per cui valga la pena combattere. Non c’è cibo né acqua, le munizioni sono esaurite. Tutto è perduto. Ma ho due notizie per voi, una buona e una cattiva. Quella buona è che ho appena iniziato a fumare questo eccellente long filler, l’ultimo della mia scorta.”
“E la cattiva?” domandò istintivamente il caporale Moncler, attonito per ciò che le sue orecchie sporche di cerume e fango avevano appena udito.
“La cattiva è che non ho alcuna intenzione di dividerlo con voi.” concluse il capitano.
E mentre pronunciava queste parole, lanciò con forza il Bowie ancora sporco del cervello del povero JC verso il tenente Carlton, centrandolo in pieno petto e facendolo sobbalzare all’indietro. Il soldato smise di respirare un attimo prima di toccare il suolo, un fiotto di sangue nerastro gli sgorgava isterico dal torace come un geyser. In quell’istante infinito, i due commilitoni superstiti, incapaci di comprendere quanto era appena accaduto, dapprima si guardarono l’un l’altro e un secondo dopo, urlando all’unisono, si gettarono rabbiosi sul loro capitano. Tenendo ben stretto il sigaro tra i denti, Baldwin afferrò per il collo il caporale e lo schiantò con violenza su Bitzkowicz che, nel frattempo, aveva estratto l’M9 d’ordinanza, pronto ad aprire il fuoco. I due caddero a terra rovinosamente e ci rimasero il tempo sufficiente affinché il capitano raccogliesse dal pavimento il suo fucile d’assalto. Brandendo l’ARX160 come un’accetta, Will cominciò a percuotere ripetutamente le teste dei due
soldati con tutta la forza, in preda ad un delirio assassino. Fuori dalla baracca, a far da controcanto al sinistro muggito degli infetti, l’unico suono udibile era il rumore dei colpi metallici sulle ossa che si rompevano. Non durò molto.
Respirando affannosamente, il capitano Baldwin poggiò il fucile imbrattato di sangue e materia cerebrale contro la parete. Evitando con attenzione il poco che restava delle teste fracassate dei due soldati, andò a riprendersi il coltello che, come un’asta di bandiera, svettava sul cadavere di Andrew Carlton. Una volta recuperato, fece per allontanarsi, ma decise di ripetere sul tenente lo stesso pietoso gesto che aveva compiuto qualche minuto prima sul sergente Jaspar, solo che, stavolta, lo fece con più distacco. Poi si ricordò di tirare una boccata dal suo ultimo sigaro che, nel frattempo, si era spento. “Maremma boia, no!” imprecò Baldwin, gettandolo lontano con un moto di stizza. In quel momento l’occhio gli cadde sul sacchetto poggiato sopra il tavolo impolverato. Si avvicinò all’involucro e, preso dalla curiosità, sciolse freneticamente il legaccio che ne chiudeva l’apertura: al suo interno si trovava una scatola in legno sigillata da un piccolo adesivo. Sul coperchio, sovrastata dal simbolo di una capra che sogghignava in modo inquietante, c’era una scritta: CIGAR CLUB APUANO. Will tolse l’adesivo dalla scatola e l’aprì con trepidazione. Non poteva crederci. Nonostante l’immondezzaio che lo circondava, l’aroma inconfondibile del buon tabacco fermentato gli arrivò dritto alle narici facendogli provare una scarica di adrenalina che gli attraversò la schiena dal culo al cervello. Dentro la scatola c’erano dieci Apuano Long Filler, integri e ben conservati. Era merce pregiata, ad uso e consumo esclusivo dei potenti funzionari del NASDOM. Gli Apuano, infatti, erano gli unici ad essere stati risparmiati dalla contaminazione del 2028 e ogni esemplare valeva una fortuna. Ci aveva visto giusto, il vecchio Will. Magari Carlton e gli altri avrebbero voluto quei sigari tutti per sé e fatto qualunque cosa pur di sottrarre al vecchio Will anche il suo ultimo long filler, chissà, magari lo avrebbero pure ucciso! A quel punto potevano esserci soltanto due alternative: o lui o loro. E l’esito definitivo del ragionamento del vecchio Will era un bizzarro puzzle dai pezzi deformi, sparpagliati alla rinfusa sul pavimento del Saint Ismaël. Che quegli Apuano fossero frutto di una rapina costata vite innocenti o che di fatto appartenessero al NASDOM, poco gli importava. Adesso erano suoi.
Il capitano prese un sigaro dalla scatola, la richiuse e la infilò nello zaino. Dopo aver fissato il Bowie sull’ARX160 a mo’ di baionetta, controllò attentamente le armi che i suoi ex soldati avevano con sé. Non aveva munizioni per l’RPG, ma nelle pistole e nei fucili c’erano proiettili a sufficienza per tentare di aprirsi un varco in mezzo a quella putrida marmaglia là fuori. Indossò lo zaino, si mise due fucili in spalla, due M9 nella cintura, imbracciò l’ARX modificato e si voltò indietro un’ultima volta. Tutto quello che la Milizia Apuana aveva rappresentato per lui, non esisteva più. Ormai esisteva solo la ferma volontà di raggiungere quel pianeta lontano dove la sua coscienza si era già felicemente stabilita.
Non appena spalancò la porta del rifugio, un tiepido calore lo investì. Fuori il sole era già alto e, oscurato dalle nubi acide, illuminava a tratti un paesaggio apocalittico che sembrava dipinto da un diabolico Monet. In fondo, pensò, questa New Tuscany aveva una certa recondita bellezza, quasi sublime. Con il prezioso long filler spento tra le labbra, aveva appena cominciato a godersi quell’attimo di rara quiete quando, d’improvviso, le urla spasmodiche di colui che, un tempo, era stato l’ufficiale medico Morris Caplan, lo riportarono alla realtà. Il mostro era a due centimetri dalla sua faccia, le braccia tese per avvinghiarlo in un letale abbraccio, la bocca bavosa e i denti, anneriti dalle centinaia di sigari fumati durante la passata esistenza prima del contagio, trasfigurati davanti al suo occhio. Con un gesto automatico, il capitano mosse di scatto il fucile tranciando di netto con la baionetta la testa dell’ex commilitone che volò in aria con ancora indosso gli occhiali, in un tripudio di plasma e umori mortiferi. Vide per un secondo il suo odioso codino roteare come una macabra trottola, prima che quel residuo infetto andasse a schiantarsi contro il muro e, rimbalzando, sparisse dietro un cespuglio. Finalmente aveva smesso di bussare.
Will Baldwin guardò davanti a sé: sterminati eserciti di non-morti lo attendevano per farne uno di loro, per renderlo piacevolmente insensibile a tutto quel dolore. Riprese a camminare con un sorriso beffardo, accese l’Apuano e lo fumò. Senza fretta, come fosse l’ultimo della sua vita.
©2018 Luca Masala
Nessun commento:
Posta un commento