31 maggio 2018

Concorso letterario apuano: Paolo Cinti: un pomeriggio, una vita

Prosegue la rassegna dei racconti del concorso letterario apuano

Paolo Cinti
Un pomeriggio una vita.
Appena entrato nel vecchio garage, gli occhi impiegarono un po’ad abituarsi alla scarsità di luce. Gran parte dell’ambiente era in penombra e l’unico angolo illuminato era il bancone da lavoro in legno che bruciava di vermiglio, acceso dagli ultimi raggi obliqui del giorno. La poca illuminazione entrava dall’unica finestra alta del portone d’ingresso esterno, sul lato opposto alla porta interna da cui ero entrato. Non accesi la lampada alogena riadattata a lampadario che avrebbe imbiancato tutto della sua luce irreale. Quanto c’era di visibile era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Mi sedetti davanti al bancone di legno, su uno sgabello girevole che era stato rattoppato da mio nonno almeno venti volte da che potessi ricordarmene; in questo, era proprio un nonno, uno per il quale buttare voleva dire sprecare. Questa sua etica, unita ad una non indifferente avarizia che la rendeva molto più divertente, la sintetizzava laconico nella formula ‘La robba, ci sta da rispettalla!’ Quando la faccenda lo richiedeva, l’affermazione
era punteggiata da una bestemmia, una formula di chiusura che usava spesso non per irreligiosità (il rapporto suo con Dio era generalmente di non belligeranza e basato sulla reciproca sopportazione) ma perché, come si dice dalle nostre parti, ‘La vestemmia justa lu discorsu e fà l’omo grossu’. Ripensando a questi piccoli aspetti della sua figura, li trovai molto meno buffi del solito. Probabilmente nel ricordo, più delle occasioni, valeva quello che avevano lasciato in me e che ora li riempiva di significato nuovo. Comunque, ora ero pronto per la mia esplorazione; il vecchio bancone da lavoro che, da solo, restituiva luce a tutto l’ambiente era lì che mi aspettava. Le tavole di legno, mangiucchiate dal tempo e dagli insetti più che dal mestiere, coprivano una struttura a cassetti, probabilmente una vecchia credenza riadattata. Degli elementi originali restava appena lo scheletro. Per la maggior parte i frontali erano stati sostituiti perché rotti e con essi le maniglie, che ora erano presenti in forme e dimensioni tutte diverse fra loro. Dall’inizio dell’estate passavo ormai almeno un pomeriggio a settimana a rovistare fra le cianfrusaglie ammassate in quell’arlecchino di legno. Chiodi e viti arrugginite in mezzo a ferri di cavallo di varie dimensioni, spazzole di ogni forma e materiale, di legno con setole in crine, di plastica con setole in metallo, spuntate, spezzate e soprattutto vecchi utensili di un’epoca lontana legata al lavoro in campagna. C’era di che far impazzire qualunque ventenne cresciuto come me a contatto continuo con il mondo in cui i miei nonni erano vissuti, raccontato più da gesti ed oggetti poco comprensibili che da narrazioni e spiegazioni vere e proprie. Quelle le dovevo andare a cercare nelle poche foto in giro per casa o in


vecchi filmati perché da mio nonno il poco che sapevo su questo periodo lontanissimo in cui lui aveva avuto la mia età era che si lavorava e si lavorava; e si lavorava così tanto che alla fine restava solo la forza per addormentarsi su un pajaricciu, spesso ancora mezzo vestiti della giornata.
Quei cassetti erano una miniera di possibili nuove vite; potevi trovarlo lì ad aprirli con precisione per recuperare a colpo sicuro attrezzi o specifici componenti per aggiustare una lampada che non si accendeva più o una radio che sfrigolava troppo. Lì c’era la sintesi della sua etica; fosse stato per lui, avremmo vissuto ancora all’epoca del baratto. A tutto quanto veniva lì conservato era attaccato morbosamente, era l’unico posto dove mia non aveva l’obbligo/diritto di rassettare a suo modo. Ora, però, tutto era a mia disposizione. Rovistavo nei cassetti per cercare di capire se ci fosse realmente un senso nell’organizzazione di tutto quel materiale che sembrava un caos psicotico più che un ordinato accumulo in vista di un futuro riutilizzo. Ci rovistavo perché ero ancora incantato da oggetti con forme per me assurde che finalmente potevo maneggiare senza rischiare di ricevere la rituale cinghiata sulla schiena (nulla di cruento, quasi un gesto d’affetto declinandolo col suo carattere). Ci rovistavo perché qualcuno doveva continuare a farlo, ora che lui non c’era più. Ma più di tutto, ci rovistavo perché nell’aprire ogni cassetto ritrovavo sempre l’odore forte, inconfondibile, del sigaro che mio nonno fumava.
Fra i cassetti ce n’era uno, più curato degli altri, ricavato da legno non colorato né trattato. I bordi erano precisi ed il frontale combaciava perfettamente con la sagoma del telaio. Il fondo era accuratamente ricoperto da un foglio di carta paglia ben teso fissato con puntine da disegno perfettamente allineate che veniva cambiato con una periodicità esatta. Lì mio nonno conservava i sigari che acquistava, dopo averli accuratamente scartati e privati del cellophane. A vederlo nella vita quotidiana, burbero con tutto e con tutti, non gli avresti mai riconosciuto la capacità di utilizzare tanta grazia ed attenzione nei confronti di qualcosa. Ma il sigaro non era evidentemente una cosa come le altre; il suo sapore si portava dietro pezzi di una storia passata che era solo sua e che neanche mia nonna sembrava conoscere completamente.
Credo di non riuscire a ricordarlo senza qualcosa di accesso in bocca. Benché avesse smesso da almeno quindici anni prima di morire, la sua immagine la legavo e lego tutt’ora a tre elementi precisi: il cappello sempre calzato sulla testa, i baffi folti e ben curati ed il sigaro costantemente a lato della bocca. Quest’ultimo in particolare era proprio parte di lui. Spento o acceso, c’era sempre. Appena sveglio, lo ‘indossava’ prima ancora dei calzoni; a pranzo e cena, lo posava sulla tavola, davanti al suo piatto, come fosse il suo cucchiaino da dolce (finezza, tra l’altro, sconosciuta in casa sua); il pomeriggio e la sera lo fumava davanti al camino, in inverno, o sulla panchetta di cemento che aveva costruito davanti casa occupando una porzione di marciapiede, in estate. Anche dopo aver 

smesso di fumare, un mozzicone di sigaro spento pendeva sempre dal lato della sua bocca e la gestualità di tirare, scuotere la cenere e lasciarlo addormentato dopo un po’ su un vecchio posacenere ormai in disuso, non la perse mai.
Mio padre aveva il vizio delle sigarette. In casa mia ero abituato a quell’odore secco e nervoso, ai cilindretti bianchi che si consumavano rapidamente e venivano ammazzati dentro a posaceneri improvvisati, per lo più tazzine da caffè. Questa cosa del sigaro era evidentemente qualcosa di molto diverso, aveva un che di profondamente rituale. Ricordo anche che, da molto piccolo, ero convinto che il sigaro non fosse fatto di foglie di tabacco, ma più di qualcosa tipo una pasta modellabile, un’argilla, a cui mani estremamente sapienti davano quella forma a tronchetto che ritrovavo fra le dita e nella bocca di mio nonno. Quando lui mi spiegò la realtà pensai ad uno scherzo. Ricordo che dovetti rubarne uno di nascosto e tagliuzzarlo per convincermene. Non parlerò per esteso della sua reazione al rinvenimento dei resti della mia operazione; rimasi solo allibito quando, dopo la sua cinghiata che segnava sempre il limite fra ciò che si poteva e ciò che non si poteva, sbuffò e disse: “Vavè, non je fà cò; po’ lo vutto dentro la pippa”. Mentre sedevo al bancone ed avevo corpo e menti fissi su questo ricordo, devo aver sorriso senza accorgermene perché mi resi conto dell’ingresso di mia nonna dalla sua voce prima che dalla luce accesa.
“Che tte ridi, Pà? Damme ‘mbò na mà a tirà jò lu callà pe li pommidori, va”. Mi rialzai dallo sgabello poggiando bene le mani sul legno secco del banco al quale sedevo per dare una consistenza a tutti quei ricordi e mi girai verso il lato opposto dove, sopra botti di vino e latte d’olio, si ergeva l’opera ingegneristica più avanzata realizzata da mio nonno: una parete attrezzata fatta di mensolone rigorosamente recuperate su cui era accatastata qualunque cosa non potesse entrare per dimensioni e funzioni nei cassetti del suo bancone da lavoro. Dalle gomme di una macchina in disuso da anni ad un vecchio televisore bianco col fondo annerito ed il frontale con la scheda dei tasti a vista fino ad una collezione completa di attrezzi di campagna dei quali avevo imparato qualcosa solo perché, non facilmente raggiungibili da mia nonna, io ero quello a cui più spesso si chiedeva aiuto per recuperarli; la mia ricompensa, a quel punto, era una spiegazione sulla loro originale funzione o un racconto ad essi legato.
Quel giorno ne approfittai per provare a strapparle qualche parola su quando mio nonno avia fatto le maremme. A differenza di tutti gli altri capitoli della loro vita, sui quali mia nonna raccontava aneddoti di continuo, quella parte era sempre trascurata, avvolta nel medesimo fumo del sigaro che lì affondava le sue radici. Avevo capito nel tempo che, molto giovane e appena sposato, mio nonno

aveva tentato di trovare lavoro in Maremma. Ultimo di sette figli, in una casa ed un campo troppo piccoli per dare sostentamento a tutti, pensava di poter meglio aiutare sé e la famiglia tentando la sorte lontano da lì. Per tre anni lavorò come mandriano, anzi, come buttero, custodendo vacche che da noi quasi non esistevano, co le corne più grosse de un bò. Imparò ad andare a cavallo, anzi, a campacce sopra; imparò a domare bestiame selvatico e a richiamarlo all’ordine con un semplice fischio; imparò là a scaldarsi, riprendere forza, combattere la fatica con il sigaro in bocca. Risparmiando tutto il possibile, al suo ritorno riscattò la possibilità di spostarsi su un campo più grande, meglio posizionato, con un fattò più giusto e con più spazio per tutta la sua famiglia. Quando gli chiedevo perché non fosse più tornato, mi rispondeva che avrebbe voluto “ma ppo nonneta vulia venì pure essa...” e così si chiudeva la spiegazione sulla sua abdicazione a quei luoghi.
«Nonna, come mai non siete partiti insieme per la Maremma?»
«Le maremme? A frechete, Pà. Pardu era picculu, e ddò lu portai!?»
«Ma perché, in maremma non c’erano bambini?»
«Ma che c’entra, issu era natu qua.» Non faceva una piega...
«Eh, nonnetu vulia rjì, ma ppò... prima s’è mmalata la matre, ppo vabbo, ppo è rriatu zitu...è stata tutta na continuaziò.»
Era interessante come nella coppia, le motivazioni sulla mancata ripartenza fossero così diverse fra di loro.
«E il sigaro? Ha cominciato a fumarlo là?»
«Ah, lu toscanu (‘sigaro’ era termine troppo generico per loro)? Scì, scì! Quann’è rvenuto paria cazzo, ancò co li stivali e lu toscanu su ‘nvocca...ah, vellu era vellu nonnetu...ma pure io, sa. Non me guardà addè cuscì ché allore...»
E si perse per un attimo in uno degli scatoloni accatastati sull’imponente parete attrezzata per tirarne fuori una foto in bianco e nero, un po’ ingiallita. Nella foto era ritratta un coppia di giovani, in abiti da cerimonia semplici ma dignitosi, dritti come fusi e con lo sguardo fisso e attento, il respiro trattenuto; belli e puliti come solo due sposi degli anni quaranta potevano essere, erano i

miei nonni nel giorno del loro matrimonio. Una vera rarità avere una foto di quel periodo anche se in un evento così importante per una coppia. Dietro la cornice che conteneva quel loro ritratto ce n’era un altro, più piccolo, incastrato coi perni di chiusura del fondo. Di un periodo successivo al ritorno a casa di mio nonno, anche qui stavano l’una accanto all’altro ma in una posa un po’ più naturale, mia nonna seria con un abito semplice, a fiori, mio padre in braccio a lei e mio nonno sorridente con il cappellone riportato dalla sua esperienza in Maremma e un mezzo sigaro in bocca.
«Esselu, vè? Lu cappellu non se lu cacciava mai, solo in estate che facia troppo callo e pe trebbià ce sse muria. E pure lu toscanu, sempre su la vocca. Quando rpijava fiato e po’ tirava, paria un mantice>.
Io nel frattempo, quasi senza accorgermene, avevo acceso uno dei miei Toscanelli. I miei primi esperimenti col tabacco li facevo lì, lontano da mia madre che, da genitrice di maschi, era particolarmente apprensiva e attenta a che io non prendessi il vizio e coperto da mia nonna che, benché non fosse contenta che fumassi, sembrava felice di sentire ancora quell’odore per lei così intimo in giro per casa.
Il suo racconto continuò ancora un po’ ma io mi persi a cercare di immaginare mio nonno da giovane, a cavallo, stare dietro a vacche maremmane e fumare. Chissà cosa pensava, in quei momenti, se nel fango della maremma gli mancasse il lavoro della nostra campagna. Quanto doveva aver faticato a cambiare i ritmi della sua vita che qua erano scanditi della terra per adattarli a quelli delle mandrie? Come avrà fatto a scambiare le mucche ed il giogo con il cavallo e le briglie o la face fienaracon la mazzarella? Chissà effettivamente quanto la persona che avevo conosciuto fosse stata cambiata da quell’esperienza e cosa si nascondeva nel sui desiderio di tornare là, da solo. E poi, lu toscanu, un’esperienza nell’esperienza evidentemente. Un pezzo di un passato mai passato veramente. Un modo per tenere vicine persone conosciute che in qualche modo sapeva che non avrebbe più rivisto. Magari ad ogni boccata le ricordava e a modo suo le salutava con gesti che là avevo appreso da loro e che adesso mi stava passando, quasi a mia insaputa.
Il rumore di mestoli di mia nonna tornata in cucina mi risveglio da questo torpore. Tornai ancora un po’ seduto allo sgabello rattoppato col mio mezzo sigaro in esaurimento per riordinare i pezzi nei loro cassetti, lentamente per lasciare che il tempo si dilatasse in quei gesti. Mentre operavo in questo modo con il sigaro in bocca pensavo ai medesimi gesti che compiva anche lui allo stesso modo, in quella posizione. Non capivo ancora come riuscisse a lavorare contornato dal fumo grasso

e denso di cui adoravo l’aroma ma che ancora la mia bocca ed i miei occhi non sopportavano. Chissà se quei toscani avevano lo stesso gusto di questi che ora iniziavo a conoscere.
«Pà, vemme ‘mbò a dà na mà co sta cassetta de pummadore!», sentii vociare mia nonna dalla cucina. Era il momento di salutarsi. Abbandonai il mozzicone di sigaro su una delle scatolette che mio nonno usava nel garage come cimitero del tabacco, accarezzai ancora il vecchio bancone alzandomi e spensi la luce dall’interruttore di fianco all’uscio. Nella penombra che ora era totale restava solo un lieve filo di fumo mentre il pomeriggio moriva ed io accostavo la porta dietro le mie spalle.


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